La nascita di un figlio è un evento socialmente riconosciuto come “lieto”, un evento che, secondo l’immaginario condiviso, porta gioia nella coppia e nelle famiglie d’origine dei neo genitori. Tuttavia le più rosee aspettative vengono drammaticamente infrante nel caso in cui alla nascita il bambino presenti gravi patologie, che possono essere di natura sensoriale e/o motorie e/o metaboliche e/o genetiche.



La nascita di un figlio è un evento socialmente riconosciuto come “lieto”, un evento che porta gioia nella coppia e nelle famiglie d’origine dei neo genitori. Non di rado tuttavia il passaggio da coppia coniugale a coppia anche genitoriale e da figli a genitori comporta complessità, notevoli cambiamenti, difficoltà e attivazioni emotive che possono mettere in crisi a livello individuale i neo genitori, la coppia, ma anche le famiglie d’origine. Di fatto la nascita di un figlio può costituire anche un fattore di rischio per l’equilibrio della coppia, questo perché ci sono notevoli variabili che entrano in gioco in concomitanza all’evento, tra cui: il temperamento del neonato (ritmi del sonno, frequenti pianti, difficoltà nel magiare e nutrirsi adeguatamente, etc), il cambiamento dei ritmi e delle abitudini della coppia, l’inevitabile a volte coinvolgimento delle famiglie d’origine nella gestione del neonato e la ridefinizione dei confini con le rispettive famiglie, la divisione dei compiti e delle responsabilità genitoriali e domestiche, la stabilità della coppia in termini economici ma anche psicologici, la maturità dei neogenitori, eventi imprevisti concomitanti … etc questo per citare solo alcune delle molteplici variabili in gioco nell’arrivo di un/una figlio/a.

Queste variabili si sommano e interagiscono con quelle relative il progetto di genitorialità della coppia, prima ancora del concepimento e relativamente ad esso (c’era un progetto?, non c’era?, è stato un investimento di energie per entrambi o uno dei due ha aderito al progetto dell’altro ?, etc). Anche in questo caso le variabili sono molteplici e citarle rende solo in parte la complessità e la “delicatezza” dell’evento “nascita” per una coppia, sono variabili che possono implicare maggiori difficoltà di gestione e adattamento, e che rendono il bambino, suo malgrado, un alimentatore di tensioni che mette a dura prova l’equilibrio psicofisico dei genitori nonché della coppia.

Dunque dal punto di vista psicologico la nascita di un bambino rappresenta una fase di transizione e di ristrutturazione di ruoli e funzioni in tutte le famiglie e questo può far si che gli equilibri debbano assestarsi come le zolle terrestri durante un terremoto di magnitudo variabile.

Psicologicamente la fase dell’attesa è una fase molto delicata, fase in cui inizia a “prendere forma” l’identità, quantomeno immaginata e idealizzata, del/la bambino/a. Il bambino nasce, quindi, già nell’immaginario dei genitori durante la gravidanza e molto spesso “indossa” un ideale di bambino “sano, forte e bello”, guarnito delle caratteristiche fisiche e psicologiche di entrambi i genitori. Dunque nell’immaginario paterno e materno, ma anche familiare allargato, il bambino inizia ad avere un volto più o meno definito ed una identità e su di lui vengono proiettati i propri desideri e la proprie speranze: «Alla sua nascita sono connesse intense aspettative di gratificazione personale e sociale» sia per i neo genitori sia per le famiglie d’origine (Selleri, 1983). Già prima di venire al mondo il bambino si trova, dunque, immerso in un vortice di attese da parte di tutta la famiglia.


L’idea, che il nascituro possa presentare dei problemi di salute, è un pensiero talmente doloroso e insopportabile da essere automaticamente rimosso, e nessuno si prepara o può trovarsi preparato a tale evenienza.


Le più rosee aspettative vengono quindi drammaticamente infrante nel caso in cui alla nascita il bambino presenti gravi patologie, che possono essere di natura sensoriale e/o motorie e/o metaboliche, genetiche, etc. La la famiglia intera è attraversata da un vero e proprio tzunami, poiché non deve solo affrontare gli inevitabili sconvolgimenti che ogni nascita reca con sè, ma si ritrova a gestire lo shock della malattia inaspettata, con l’evenienza che sia a repentaglio la sopravvivenza del neonato. Il dolore è incontenibile, misto a sentimenti di impotenza, colpa, angoscia e profonda insicurezza, lo stress raggiunge livelli elevatissimi.

Se la nascita di un figlio sano viene inconsciamente elaborata come una conferma positiva delle proprie capacità, la nascita di un figlio con disabilità può essere vissuta, dai genitori come l’espressione della propria inadeguatezza e come un vero e proprio fallimento.




La nascita di un figlio portatore di disabilità comporta un vero e proprio evento traumatico per la famiglia. I familiari subiscono uno shock, che simile al lutto inatteso di una persona cara. Alla notizia della disabilità del proprio bambino, infatti, i genitori vivono dentro di sé la morte del figlio desiderato, atteso e fantasticato in quanto il bambino non corrisponde all’immaginario che madre, padre, parenti si erano costruiti di lui durante la gravidanza.

Allo shock iniziale seguono nel tempo fasi di negazione e rifiuto della disabilità. Per esempio sperando in un errore di diagnosi e alternando fasi depressive e di isolamento e a reazioni di autocolpevolizzazione. Tali dinamiche interne, talvolta agite, vengono accompagnate spesso da una chiusura della coppia genitoriale verso il mondo esterno e da una radicale modifica dell’equilibrio precedentemente creato, nonché da un atteggiamento di iperprotezione e totale dedizione nei confronti del proprio figlio.

L’iperprotezione nel tempo può essere un ostacolo al riconoscimento del potenziale del bambino, celato dietro le sue disabilità, essa può manifestarsi attraverso l’anticipazione dei bisogni del bambino senza dargli neanche il tempo di esprimerli, il sostituirsi a lui, anche dove potrebbe fare da solo o impedirgli di fare alcune esperienze percepite come rischiose per la sua incolumità, penalizzandolo ulteriormente. Psicologicamente rinunciare agli eccessi di protezione è emotivamente faticoso poiché riattiva i sensi di colpa, questi si amplificano quando per esempio si presenta la possibilità di ritrovare uno spazio per recuperare i propri bisogni e desideri individuali o di coppia. I sensi di colpa colludono con le reali difficoltà del quotidiano, che spesso ostacolano e talvolta impediscono ai genitori di potersi ritagliare “spazi di respiro”, di cui avrebbero pieno diritto e necessità.

Un altro momento cruciale in questa esperienza di vita è quello in cui viene dichiarata la diagnosi ai genitori: un momento molto doloroso, ma anche, fondamentale. Il momento della comunicazione della diagnosi possiede infatti una grandissima importanza nel vissuto dei genitori e del bambino, soprattutto relativamente alle modalità con cui viene comunicata: il ricordo di quel preciso momento rimane estremamente vivido nella mente dei genitori, anche a distanza di decenni e spesso è uno dei principali target (ricordi) traumatici. La modalità con cui viene comunicata la diagnosi può davvero determinare, in buona parte, il modo con cui il bambino verrà accolto in famiglia. La chiarezza, l’empatia e la gradualità sono elementi indispensabili durante la comunicazione della diagnosi, che non sottraggono i genitori alla sofferenza del momento ma che, li introducono ad un percorso di consapevolezza, seppur non lineare. Per tale ragione è fondamentale che alla restituzione della diagnosi seguano altri incontri informativi, psicoeducativi e di supporto e che questo passaggio fondamentale non si risolva nell’immediato, quindi solo nei giorni della degenza ospedaliera.

La comunicazione della diagnosi deve inoltre tenere conto della sensibilità e della vulnerabilità delle persone coinvolte: «L’auspicio è per un “approccio accogliente” che accompagni il genitore, senza pregiudizi, nelle difficili scelte che dovrà compiere» (Greco et al., 2006).

Ad esempio molte ricerche condotte sulle famiglie, da diversi studiosi, dimostrano come i genitori che ricordano di aver avuto, al momento della comunicazione della diagnosi, informazioni chiare adeguate e con empatia, siano più soddisfatti e sicuri nel loro compito genitoriale di coloro che, invece, ritengono di aver ricevuto solo parziali informazioni e che restano con tante domande. Questo accade anche perché molte volte i primi sono accompagnati e introdotti in “reti di sostengo”, supporto e cure che fanno la differenza nel doloroso, complesso e delicato percorso che li aspetta a fianco del loro bambino. Lo shock iniziale, conseguente alla comunicazione della diagnosi, può attivare, in entrambi genitori meccanismi di difesa, per cui, come precedentemente accennato, si nega la realtà, si nega l’esistenza della problematica di salute e della disabilità. Questa forma di difesa, può, inconsciamente attivare un approccio verso il figlio, caratterizzato dalla tendenza a vederlo/la-volerlo/la sano/a, in salute a tutti i costi, che potrebbe tradursi in una lotta contro la malattia/disabilità e nella ricerca di tutti i mezzi e di tutte le possibili soluzioni, anche quando si tratta di disabilità e malattie irreversibili. Tutto questo può tradursi in «lunghe, costose e frustranti peregrinazioni» da un medico all’altro per non lasciare nulla di intentato. Il senso di solitudine, impotenza, frustrazione, rabbia, e il senso di colpa aumentano, cosi come possono aumentare le tensioni familiari e “la magnitudo del terremoto” della crisi familiare.

L’accettazione non è mai un percorso lineare con un inizio e una fine, è un percorso che accompagna tutta la vita dei neo genitori e della famiglia e che inizia con l’acquisizione della consapevolezza della malattia del proprio figlio.

Anche questa consapevolezza non è un fine e non è un obiettivo che può essere raggiunto una volta per tutte, ma segue percorsi tutt’altro che lineari. Le difese e gli adattamenti oscillano a seconda dei progressi o dei regressi del bambino, momenti di sollievo si alternano a momenti di sconforto, che rispetto ai primi sono più frequenti. Fondamentale accedere ad un percorso di sostegno psicologico e/o psicoterapia, individualmente e anche eventualmente come coppia, nonché far parte di associazioni e reti di supporto nel territorio. La nascita di un figlio con disabilità è come precedentemente detto un trauma per i genitori, per il sistema coppia e per l’intero sistema familiare. La situazione peraltro diventa più complessa quando ci sono altri figli. In questo caso la psicoterapia con professionisti preparati e competenti può essere un valido supporto, in generale e in particolare nei momenti più difficili del percorso, nonché un mezzo per elaborare i vissuti traumatici legati alla diagnosi e ai momenti più critici del percorso al fianco del proprio bambino, per questo la terapia e in particolare la terapia EMDR può essere un valido supporto nelle sfide e nella complessità di questa dolorosa esperienza di vita.